Non serve più scavare nelle periferie per trovare il malaffare: oggi indossa il doppiopetto, ha la faccia pulita e il cognome importante. Tancredi Antoniozzi, figlio del deputato di Fratelli d’Italia Alfredo Antoniozzi, è stato arrestato come capo di una banda di rapinatori di Rolex. No, non è una serie Netflix. È l’Italia reale, quella dove i figli dei “paladini della legalità” fanno il bello e il cattivo tempo nei quartieri bene, agendo come piccoli boss da fiction.
Il rampollo “ribelle” non si è accontentato dei privilegi ereditati. Troppo noioso, probabilmente. Meglio la vita spericolata: pedinare, minacciare, rapinare, magari anche tentare il “cavallo di ritorno”, perché mica si ruba per necessità… si ruba per sport, per gioco, per il brivido. E per dimostrare che l’impunità scorre nel sangue.
Mentre papà sbraita di sicurezza, ordine e “tolleranza zero”, il figlio organizza spedizioni punitive con la stessa disinvoltura con cui altri ragazzi ordinano un cocktail. Ciò che indigna non è solo la doppia morale, ma l’arroganza insita nel pensare che tutto sia permesso. E, finora, forse lo è stato davvero.
Non è la prima volta che il nostro piccolo delinquente da salotto incappa nella giustizia: aggressioni a carabinieri, risse da coatto con l’anello al dito, e ora le rapine. Un curriculum da Oscar del degrado, altro che “figlio d’arte”.
È il momento di smettere di chiamarli “ragazzate”. Basta con i guanti di velluto per i figli dei potenti. Se un ragazzo di Tor Bella Monaca avesse fatto anche solo la metà di ciò che ha fatto Tancredi, starebbe già a scontare anni dietro le sbarre, senza nemmeno un’intervista o un commento compassionevole.
Questa vicenda è un pugno in faccia a chi ancora crede che la legge sia uguale per tutti. È l’ennesima conferma che certi cognomi non si sporcano mai, anche se grondano fango.